Trote di Xacio Baño, un’intervista

A dieci giorni dall’inizio del Festival del Cinema Rurale sul Lago d’Orta pubblico questa intervista realizzata con Xacio Baño a Locarno il 9 agosto, all’indomani della prima visione di Trote (Spagna/Lituania, 2018, 83′). L’autore era stato ospite di Corto e Fieno nel 2016 con il bel cortometraggio Ser e Voltar, già selezionato a Clermont-Ferrand e a Locarno, un dialogo ritmato dalla stasi della campagna tra i nonni e il nipote celato dietro la videocamera.

Xacio Baño (Spagna, 1983) è un regista da non perdere di vista.  Trote è il suo primo lungometraggio, prodotto dalla Frida Films. Si tratta ancora di una storia che mette in discussione e scardina dall’interno i rapporti tradizionali tra famigliari. In un paese sulle montagne della Galizia Carme cerca la propria libertà e Ramón, il padre, cerca la propria morte, ma si scontrano con la visione patriarcale della società incarnata da Luís, il figlio e fratello. I fatti si svolgono durante la Rapa das Bestas, una festività durante la quale gli uomini catturano i cavalli che hanno trascorso la bella stagione allo stato brado sui monti.

Nel film le parole inutili scompaiono dopo essersi prosciugate fino all’essenza naturale dell’essere umano, che corrisponde alla sua condizione di essere animato e quindi di animale. Carme si apre così alle esigenze puramente istintive che scaturiscono in atti silenziosi di ribellione contro le sovrastrutture imposte dalla breve storia delle relazioni sociali.

DV – C’è un sentiero ben tracciato da Ser e voltar a Trote: parole e silenzi, figure e luoghi, costanti punti di vista camminano con te. Per favore, potresti dirmi qualcosa in più sulla tua poetica?

XB – Ser e voltar è stato l’inizio di questo percorso verso un certo tipo di ricerca, perché è un film in cui tratto della relazione con i miei nonni e in Trote racconto della relazione tra un personaggio, Carme, e il padre; parlo della gestione delle relazioni famigliari e di quanto pesino sulle spalle delle persone le pietre culturali . Ho voluto costruire un film molto caotico con un carattere molto animale e istintivo in cui non ci fossero riprese generaliste o che oggettivizzassero una situazione. Ogni cosa è mescolata e non vi è una forma narrativa tradizionale con un inizio e una fine. Si può parlare piuttosto di un cerchio, in cui si trovano gli spettatori che alla fine della proiezione si chiedono “Va bene: e quindi? che cos’è successo?”.

DV – Sì, è proprio quello che abbiamo percepito in sala. L’esperienza è stata enigmatica e coinvolgente. Il tuo cinema non ha fronzoli: parte da uno sguardo diretto e profondo sulla realtà che tu stesso hai sperimentato prima come animale e poi come uomo dietro una cinepresa. Qual è la scelta principale che caratterizza i tuoi film come esercizi di osservazione sulla vita?

XB – Ho voluto fare un film sulla transizione dall’uomo all’animale. Questa trasformazione si è attuata sui personaggi così come sul regista. Ho voluto iniziare il film sotto la pioggia, mettendo in sequenza immagini pensate in concatenazione – ogni cosa messa in questo o quel posto  – e riprese statiche. Ho voluto ricreare il suono della vita che per me è animale; la vita per me è essenzialmente questo: “Va bene, adesso lascia pure che il tuo istinto animale lavori”.

Ritengo che in questa società abbiamo dimenticato di essere degli animali e quindi pensiamo a ciò che possiamo fare invece di pensare a ciò che abbiamo bisogno di fare. Queste sono le domande che sottostanno al film: “Devo ascoltare la mia mente o il mio stomaco, cioè il mio animale? In quale modo si può essere più felici?” Questa è la storia di Carme ma anche la mia storia come regista: all’inizio avevo intenzione di tenere tutto sotto controllo, ma poi ho lasciato entrare la vita. E così è accaduto che ho perso un po’ il controllo, il che ha reso più interessante il mio lavoro di direzione.

DV – D’altra parte hai portato un’attenzione davvero fortissima sugli ambienti in cui si svolgono liberamente gli eventi, curando le scenografie fino ai minimi dettagli. Vorrei infatti parlare dei luoghi. Ho notato che curi con particolare dovizia gli spazi interni ed esterni in cui si muovono i tuoi personaggi. Un certo tipo di arredamento, di porte, di finestre, di muri e di cortili fanno parte del tuo alfabeto filmico. Come operi in relazione agli spazi?

XB – Amo questa domanda, davvero. Per me è stato fondamentale operare una distinzione tra gli spazi della vita domestica e gli spazi della vita selvaggia, al di fuori della nostra casa: quello che sono per me stesso e quello che sono per gli altri; quello che provo a dire agli altri e quello che veramente sono. Quindi i muri, le finestre e gli altri elementi architettonici hanno avuto un ruolo importante nel film. Tutti i personaggi ascoltano prima di vedere: sono animali che ascoltano un rumore provenire da una parte della casa, un po’ come se seguissero un sentiero in una caverna.

Allo stesso tempo ho scelto di lavorare anche in spazi aperti, soprattutto con figure maschili piuttosto che femminili. Uno dei temi che tocca questo film è il patriarcato, ovvero come una donna o un uomo abbia le proprie regole e le proprie pietre culturali – ancora una volta – da portare addosso. Ci sono due immagini davvero importanti: la prima è una donna che sta nel buio della chiesa dietro il lume della candela mentre fuori si sta svolgendo una processione, e la seconda è un uomo anziano al lavoro davanti a un falò. Da questa contrapposizione traspare la differenza tra l’uomo e la donna nella società patriarcale. Tu, uomo, hai la possibilità di essere grande con le tue azioni, ma tu, donna, ti porti dietro un debito: devi occuparti della famiglia e non hai l’opportunità di andare troppo lontano. Questo è il problema davanti a cui si trova Carme. Cerca di fare quello che il resto della famiglia pensa che debba fare, ma alla fine la cosa la riempie di tristezza.

DV – La famiglia è il soggetto principale dei tuoi film. Dentro di essa riconosciamo il nostro essere perlopiù attraverso lotte e rifiuti. Il tuo lavoro mostra questa condizione senza aggiungere alcun giudizio. Hai sviluppato una specie di processo maieutico attraverso le immagini. Possiamo parlare di questo particolare procedimento?

XB – Se devo parlare della famiglia, penso che sia l’inizio dei problemi della società in cui ora ci troviamo. Il sistema monogamico ha posto su di noi delle norme che si discostano dalla nostra natura di animali. In quanto animali abbiamo bisogno di correre, di incontrare altri partner – un’altra ragazza, un altro ragazzo, – e di continuare ad andare senza sosta, ma le regole sociali ti dicono che devi stare con un uomo o con una donna fino alla morte. Se hai un figlio o un padre devi prenderti cura di loro. Se tuo padre è malato devi curarlo fino alla fine dei suoi giorni e quindi non hai l’opportunità di vivere la tua vita. Tutto questo è molto difficile da gestire nella vita reale. In Trote la figura del padre, Ramón, cerca di trovare un posto sulla via. È vicino alla morte. È pressoché impossibile vedere il suo volto perché egli non sa più riconoscersi. Così sta cercando un luogo dove stendersi e morire. Non vuole ricevere alcun aiuto dai suoi figli perché sente che è arrivato il tempo di morire.

Questo accade in un contesto rurale. In città forse, o in un altro tipo di società, ti senti in dovere di accudire tuo padre, ma così ti tarpi le ali e non puoi più volare. Devi essere molto in gamba per gestire delle forze così contraddittorie ed essere felice in questa situazione.

DV – Dunque il rapporto tra gli anziani e le giovani generazioni è il punto di svolta verso una nuova società. In Ser e voltar i protagonisti sono i tuoi nonni. In Trote sembra che la vecchia generazione legata alla tradizione stia svanendo e decida di disporsi ai margini della società. Le immagini sacre sono chiuse in una scatola di legno e rimane nelle tenebre una candela solitaria, stretta dalle mani di un’anziana. Quale relazione hai costruito con la tua personale tradizione e con quella sociale attraverso il tuo lavoro?

XB – È sempre la solita storia: tentiamo di essere animali sociali ma è difficile ottenerlo. Parlando della tradizione, la religione è una delle cose peggiori che ci siano state tramandate. Ci ha caricato le spalle di odio e di pietre che ci rendono persone tristi. Ci hanno messo tante nozioni nella testa che in fin dei conti non hanno alcun significato, ma hanno lo scopo di toglierci la felicità. Invece è necessario soffermarsi su queste mura così ravvicinate e sulla scarsa comunicazione tra i personaggi. Una delle questioni al centro del film è che non si parla mai delle cose davvero importanti. Si può parlare di molte cose, magari che riguardano il vicinato, ma quando si tratta di parlare della famiglia, allora si apre il conflitto e inizia la battaglia tra i personaggi. Ho voluto trattare delle tradizioni e delle questioni culturali, facendo comprendere come la famiglia sia per noi una prigione che ci tiene intrappolati.

DV – Sembra che tu voglia far perdere gli spettatori dentro al film, e far sì che – mentre si perdono – trovino la libertà. A questo punto devo farti una domanda tecnica: come lavori sulla sceneggiatura per ottenere questo risultato?

XB – Sì, volevo che il pubblico si sentisse al centro della situazione abbandonando il posto comodo in cui si trovava e comprendesse quale fosse il problema di quella gente. Avevo bisogno che le immagini dei cavalli e della gente si mescolassero. Ho lavorato alla sceneggiatura mettendo a conoscenza gli spettatori di alcune notizie sui personaggi che non erano necessarie e omettendone altre che il pubblico si aspetterebbe di ricevere. Perché ho fatto questo? perché vorrei che il viaggio degli spettatori non fosse mentale ma istintivo. Devono dimenticare il cervello e l’intelligenza per lasciare che il corpo e lo stomaco si muovano attraverso il film. D’altronde questo è il contrario di quello che il pubblico vuole: vogliono sapere tutto del posto e alla fine vogliono anche essere a conoscenza di tutta la storia. Ma questo film si fonda sulla ricerca dell’istinto della protagonista: io ho cercato il mio istinto da regista e vorrei che gli spettatori trovassero i loro istinti guardando.

DV – E adesso una domanda tradizionale: stai lavorando ad una nuova sceneggiatura e ad un nuovo film?

XB – Sì, sto lavorando a una nuova sceneggiatura. Il titolo è Anna and the future. È un’opera più in grande. È la storia di una donna. Racconta di come le cose siano cambiate a distanza di dieci anni, dopo una dura lotta. I fatti si svolgono in un week-end. Si tratta di un ritratto ravvicinato di una donna che ha fatto cose molto brutte nel suo passato. In qualche modo prende ispirazione dal racconto di Dickens A Christmas carol . Questo è un progetto che riguarda i prossimi due anni, ma tra un mese chiuderò il mio nuovo cortometraggio. È un breve documentario che racconta di sei lettere che un mio bisnonno ha inviato alla mia famiglia durante la guerra civile prima di morire. Sono solo sei lettere ma vorrei trovare dove lui è sepolto e raccontare la sua storia. È un cortometraggio molto strano perché prende ispirazione dal pesce lanterna. La videocamera ha sempre una lampada davanti come il pesce lanterna e si muove nelle tenebre. Tutto accade in una notte in un’atmosfera sognante acquatica e abissale. Ho voluto girarlo tutto con le mie mani, perché è una delle cose che più mi sono mancate durante le riprese di Trote. Le cose si sono svolte in maniera molto veloce e non ho davvero avuto occasione di toccare il film. Così con questo cortometraggio posso ancora toccare il film.

DV – Quali sono stati i tempi di produzione di Trote?

XB – Il film ha richiesto una produzione di due anni e mezzo ma le riprese si sono svolte in quattro settimane, otto ore al giorno. È stata una cosa particolare perché non ero mai stato in una produzione cinematografica, a parte i miei corti che hanno avuto una produzione davvero minima. Il salto è stato quindi per me molto alto raggiungendo quella che è una vera produzione cinematografica. Alla fine ho imparato un sacco di cose in questo processo e ho di certo intenzione di fare un secondo film avendo compreso quali opportunità ti dà lavorare su questa lunghezza.

DV – In conclusione, come direttore del Festival del Cinema Rurale, ti chiedo di fare alcune considerazioni sul cinema rurale e sulla tendenza contemporanea dei registi a costruire film che mettano in connessione il documentario e la fiction. Potremmo parlare di un nuovo Neorealismo?

XB – Penso che il pubblico sia stanco delle stesse storie, degli stessi attori e delle stesse proposte formali e quindi questo nuovo neorealismo è l’unica soluzione che possa dare al cinema la spinta necessaria per il futuro, perché i giovani adesso sono svelti e conoscono tutti i trucchi. Se non cambiamo la maniera in cui facciamo film, la maniera in cui creiamo buchi neri nelle storie e non ribaltiamo le stesse classiche storie degli eroi, non ci sarà più alcun futuro per il cinema.

Quindi, dovendo cambiare tutto questo, dovendo dare al pubblico altre storie e altre forme che aprano le menti, si può andare incontro a parole molto ingrate perché gli spettatori vogliono vedere ciò che si aspettano di vedere pagando il biglietto. Ma tutto questo sta alla responsabilità di noi registi e creatori, che dobbiamo rendere il cinema sempre più vibrante e vivo.

 

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