Graham Greene, narratore

Greene uomo giovane e vecchio

I protagonisti dei romanzi di Graham Greene sono incastrati in meccanismi artificiosi. I traditori ispirano pietà, hanno i denti marci e una vita già persa, gli aguzzini portano con sé delle ragioni per essere divenuti strumenti di violenza ben oliati e lustri, mentre gli eroi – sebbene siano ancora in gioco – si preparano alla sconfitta: morsicati dalla vita, vedono nella battaglia un’inevitabile occasione di riscatto. Si lasciano condurre dalle maglie della rete attraverso uno spazio equoreo limitato, aspettando il momento opportuno per distruggere la trappola che minaccia la vita di altri pesci, di altri uomini. Seguendo i loro reconditi obiettivi, costoro s’inoltrano sulle strade incerte e irragionevoli di Franz Kafka, il che avviene senza pathos ma piuttosto con un’angoscia che affiora dall’ironia delle piccole cose banali, dai difetti fisici e morali, dalla solitudine che si smarrisce sul fondo di un bicchiere.

Greene non è uno scrittore della realtà: anche lui appartiene alla schiera dei surrealisti. I suoi personaggi si muovono come in sogno seguendo linee di accadimenti inverosimili. Gli ambienti sono inquietanti in quanto pensati, costruiti e abitati dagli esseri umani. I fini della società sono perversi e immorali. Il gioco è condotto da pochi uomini inumani. Capitalisti, produttori di armi, burocrati, dittatori e ufficiali dell’oppressione perseguono il potere e il sopruso su scala globale. Le concrezioni inurbate del pianeta non sono altro che incubi collettivi in cui “tutti siamo coinvolti” correndo, inseguendo, fuggendo, tramando e amando, come fa ripetere più ai suoi personaggi nei Commedianti.

Proprio in questo romanzo si sente la ristrettezza claustrofobica del mondo in cui viviamo. Siamo ad Haiti, nella parte sovrappopolata e spoglia dell’isola che Cristoforo Colombo toccò all’arrivo dalla Spagna. Un dittatore felice, un medico educato a Parigi, sparge sangue e terrore per mano di volontari disumani – la leggenda voodoo vuole che siano zombie – che indossano occhiali scuri e portano pistole, machete e fucili. Non c’è via di scampo: solo l’orrore in difesa dei valori democratici e dell’ordine sociale.

Il nostro agente all’Avana – altro romanzo caraibico venato di ironia feroce – non può fare altro che mentire ai propri superiori, ingannare lo stato britannico che lo mantiene e giocare a dama con il peggiore torturatore di Batista, scoprendo che è un uomo piacevole da frequentare. Nella ferocia dei fatti mossi da poteri contrapposti e annoiati non gli resta infine che una vendetta personale, perpetrata nei confronti di chi è una semplice pedina come lui. Spara a un altro uomo qualunque, un suo connazionale con il quale condivideva l’onesta professione di venditore d’aspirapolvere e il servizio segreto per qualche pretesa rete di poteri internazionali.

L’attenzione di Greene non sa stare sulla Storia delle Nazioni, non può infatti allontanarsi dalla sfera della persona trascinando con leggera ironia i suoi personaggi ingenui e inetti in avventure da spy story, rivelando la forza deflagrante dell’umanità: la propria inemendabile imperfezione. Permane quindi nell’ombra, pungente, lo sguardo vero di Kafka, nume protettore del mondo instabile uscito dalla penna di Graham Greene; un universo travolto dalla malvagità con freddezza, che tuttavia si muove e respira, si protegge e reagisce, alla ricerca di una gioia interiore, travalicante il tempo, debordante; dal futuro all’indietro – cancellando tessendo – secondo i dettami dell’impossibile che annientino le leggi del pessimo.

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