I diari degli altri

Leggere i diari degli altri mi rincuora.

Mi sembra che in quelle pagine i lavoratori della scrittura diano il meglio di sé, senza l’esigenza di celarsi, senza essere tentati dalla perfetta – inesaudita – assenza. La cifra umana svanisce nell’immediatezza del pensiero calligrafico.

Più leggo invece narrativa, più trovo inattese imperfezioni. Tra i contemporanei nei quintali di pagine d’inchiostro gettate stampate macerate in digitale, la ripetizione è ovunque, giustificata dallo specchio del reale infranto in gamme di panini al prosciutto e formaggio, collant e auto di ultima generazione; portata a termine dalla tastiera vanitosa di chi scrive per ottenere posizioni intellettuali nella vacuità delle messe in scena.

Le parole ripetute, tuttavia, sono presenti anche nei grandi del 900, in Kafka come in Fenoglio, e determinano crepe insanabili nei costrutti di finzione, che si allargano di anno in anno da quando l’edificio è stato lasciato a se stesso. Sì perché l’opera letteraria finisce con l’individuo che l’ha scritta. Nessun altro potrà metterci mano. Nessun restauro, figurarsi ristrutturazioni… e lei invecchia, con i suoi difetti originari, fino a giungere alla frantumazione.

La scrittura diaristica è il futuro del nostro tempo; è lo strumento letterario più aderente alla nostra imperfezione. E più il diario sarà sparso, introvabile e casuale, e più sarà apprezzabile.

Ripetere se stessi è un vantaggio: facilita la personale dispersione nel pulviscolare ondivago.

Per non essere folla non bisogna essere tra la folla.

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